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Tra le notizie recenti ma sommerse da eventi più importanti e problemi più pressanti c’è il rischio di uno scisma della Chiesa del Malabar (nome tradizionale del Kerala). Geograficamente stiamo parlando della costa meridionale del lato ovest del subcontinente indiano, dove sono concentrati più di sei milioni di cristiani. Pochi in percentuale in un paese come l’India, tanti per noi in termini assoluti. Quella del Malabar è una comunità cristiana molto antica, nata e influenzata dai traffici marittimi che seguendo i monsoni alimentavano i commerci fra Europa e Asia. Una Chiesa dalla storia antichissima, che risale alla predicazione dell’apostolo Tommaso, che partendo dalla Mesopotamia sarebbe arrivato sulle coste dell’attuale Kerala, sudovest dell’India, nel 52 d.C. Successivamente – parliamo del XVI secolo –  l’arrivo dei Portoghesi fu accolto favorevolmente: erano colonialisti ma avrebbero protetto la locale comunità cristiana dalle prepotenze degli arabi musulmani. Ma presto vennero anche i problemi: tramite l’arcivescovo di Goa la Chiesa di Roma tendeva a influenzare la comunità locale, originariamente legata alla chiesa siriaca, quindi di rito orientale, ispirata dalla predicazione di san Tommaso apostolo e fino a quel momento indipendente. Si arrivò al punto che, nel 1599, al Sinodo di Diamper, l’arcivescovo di Goa, guida della Chiesa nominato dai portoghesi, impose di usare solo libri liturgici che fossero in parte o largamente conformi a quelli latini. Ciò suscitò ovviamente proteste, rompendo l’unità delle chiese locali: nel 1653, al cosiddetto giuramento sulla “Croce Pendente di Cochin” i ribelli si separarono dai Latini e non accettarono più un vescovo gesuita. Questo fu l’inizio della scissione in diverse denominazioni dei “cristiani di Tommaso” che vediamo oggi espresse in sei o sette forme. La chiesa cristiana del Malabar aveva comunque assorbito nella liturgia anche elementi locali indiani e teologicamente si è sviluppata dall’odierna “Chiesa assira d’Oriente”, che si separò nelle dispute cristologiche già nel 431 d.C. in occasione del Concilio di Efeso. Ora, si è visto come col tempo si venne a una divisione fra una Chiesa cattolica malabarica di liturgia latina – pur con qualche adattamento alla cultura locale – e altre chiese più tradizionali, di fatto autonome da Roma. Parlando ora solo di quella cattolica di rito siro-malabarese, essa conta 35 eparchie (diocesi) con 4 milioni e mezzo di fedeli, oltre 10mila sacerdoti tra diocesani e religiosi, e oltre 36mila suore, ed è la seconda Chiesa cattolica di rito orientale, o sui iuris, dopo la Chiesa greco-cattolica ucraina come grandezza. In secondo luogo la Chiesa siro-malabarese è oggi fra le più feconde di vocazioni e dinamiche in senso missionario nel panorama asiatico, solo nel 2023 i nuovi sacerdoti sono stati circa 230. Alcune sue diocesi si trovano anche nel nord India o in metropoli come Delhi, Mumbai, Kolkata, Bengaluru, Chennai. Si tratta, fra l’altro, di una Chiesa con un laicato tradizionalmente molto impegnato e maturo, che ha un ruolo importante nella vita delle parrocchie.

Ma vediamo ora quale è il motivo attuale di contrasto con Roma. Intanto  col tempo il Vaticano venne a più miti consigli: Papa Pio XI instaurò il 21 dicembre 1923 una gerarchia propria per la Chiesa siro-malabarese (costituzione apostolica Romani Pontifices) e nel 1934 diede il via ad un processo di de-latinizzazione dei riti che portò all’approvazione della nuova liturgia da parte di papa Pio XII nel 1957. Nel 1992 papa Giovanni Paolo II elevò la Chiesa al rango di arcidiocesi maggiore con il titolo di «Arcidiocesi maggiore di Ernakulam-Angamaly», nominando quale primo arcivescovo maggiore il cardinale Antony Padiyara (rimasto in carica fino alla sua morte nel 2000). Il 24 maggio 2011 la Chiesa cattolica siro-malabarese, riunita in sinodo con tutti i suoi rappresentanti, elesse per la prima volta il proprio responsabile maggiore, l’arcivescovo George Alencherry, confermato dalla Santa Sede il 26 maggio successivo (1). E adesso invece è in atto uno degli scontri liturgici più accesi e drammatici dai tempi dell’opposizione alla riforma liturgica post-conciliare capeggiata da monsignor Marcel Lefebvre. La storia è complessa e qui la riassumiamo così: la larga maggioranza dei sacerdoti e dei fedeli dell’arcieparchia di Ernakulam-Angamaly – il cui arcivescovo è d’ufficio la guida spirituale della Chiesa siro-malabarese – rifiuta di adottare il rito riformato per la celebrazione della Messa, chiamata Santa Qurbana, come stabilito già nel lontano 1999 dal Sinodo della Chiesa siro-malabarese stessa, in accordo con Roma, e poi nel 2021, con un atto che doveva segnare la fine di 20 anni di negoziati e attriti, ma che invece ha scatenato la protesta a Ernakulam. Preti in sciopero della fame, picchetti di fronte alle chiese, missive e documenti ufficiali bruciati in pubblico, la Cattedrale chiusa per evitare tumulti. Ma cosa ha scatenato tutto ciò, liturgicamente? Fin dai primi tempi i sacerdoti siro-malabaresi hanno celebrato la Santa Qurbana rivolti ad Orientem, con i fedeli alle loro spalle. Hanno continuato a farlo anche durante il periodo della “latinizzazione”, un’epoca in cui anche il clero occidentale peraltro celebrava ad Orientem. La “latinizzazione” ha fatto sì che molte eparchie abbiano seguito spontaneamente il cambiamento avvenuto nella Chiesa latina con la riforma liturgica conciliare e la celebrazione che si è imposta versus populum. Solo che nel frattempo il decreto del Concilio Vaticano II Orientalium ecclesiarum aveva dato un impulso di segno diverso, a recuperare cioè l’originalità delle forme liturgiche orientali, depurandole da sedimenti latini. Ovvero, ritorno alla celebrazione esclusiva ad Orientem. Soluzione trovata nel 1999 dal Sinodo siro-malabarese: celebrazione versus populum durante la liturgia della Parola, celebrazione ad Orientem durante la liturgia eucaristica, e ritorno versus populum nella parte finale della Santa Qurbana. Una soluzione che nel tempo, non subito, è stata accettata da tutti tranne che dall’arcieparchia di Ernakulam-Angamaly, la quale è rimasta ferma in un’opposizione radicale, che cela forse anche motivi extra-liturgici, di potere e anche di avversione ai gesuiti (Papa Francesco lo è). Per risolvere la divisione Sua Santità si è speso in prima persona: ha indirizzato una lettera all’arcieparchia il 25 marzo 2022 (2), ha inviato un suo delegato speciale lo scorso agosto – l’arcivescovo-vescovo di Košice dei bizantini, in Slovacchia, Cyril Vasil’ (un altro gesuita!) – e lo scorso 7 dicembre ha mandato un accorato videomessaggio. Lo stesso giorno ha poi accettato le dimissioni del contestato arcivescovo maggiore, il cardinale George Alencherry, e del vescovo Andrew Thazhath, da due anni amministratore apostolico di Ernakulam-Angamaly, decisione che ha portato all’elezione del nuovo arcivescovo maggiore Raphael Thattil.  

Vista da un laico come me, la controversia è paradossale. Il punto è che il rito siriaco orientale – vale a dire il rito originale – era rivolto verso l’altare, ma a causa della progressiva latinizzazione si è sviluppata anche in India una forma rivolta alla comunità. Ma perché obbligare a Oriente il ripristino della tradizione mentre a Occidente si prescrive il contrario, distruggendo la liturgia tradizionale, vietando di fatto la messa in latino e mettendo da parte secoli di musica liturgica? Mistero. E poi, ma davvero i problemi sono questi?  Perché non permettere oggi alle comunità locali di organizzarsi secondo la loro cultura? L’importante è non toccare i testi sacri.

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Note:

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