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Leggo spesso Ticino on line, il quotidiano della Svizzera italiana. Prevedibili alcune notizie (contrabbando di valuta, ubriachi al volante, notizie bancarie, disposizioni sui lavoratori frontalieri, confronto con la UE), divertenti altre (la puzzola animale del 2024 come elogio della biodiversità), inquietanti alcune. Eccone una:

22 dicembre: “Una donna turca che vive nel canton Soletta dal 1983 dovrà lasciare il Paese perché non si è integrata. Lo ha deciso il Tribunale federale”. Ma andiamo per ordine, almeno come la notizia è riportata nei dettagli: quella donna arrivò in Svizzera con l’allora marito nel 1983, all’età di 19 anni; ora è nonna, ma dovrà lasciare il Paese dopo più di 40 anni, come riporta il “Solothurner Zeitung” citando una decisione del Tribunale federale. La donna, fin dal suo arrivo in Svizzera, si è occupata solamente della cura dei figli, ormai adulti. Suo marito si è separato da lei nel 2006 e il divorzio è stato finalizzato in Turchia nel 2011. Dopo la separazione, l’ex consorte si è rifiutato di versarle gli alimenti e per questo la donna ha vissuto prevalentemente di assistenza sociale. Da marzo 2006 ad agosto 2022 l’importo che le è stato versato ammonta a circa 351.546 franchi svizzeri (meno di 376.000 euro), cioè circa 22.000 franchi all’anno. Per dare un’idea, uno stipendio dignitoso nel Canton Ticino è sui 5.000 franchi (5.350 euro), 6000 a Zurigo. Comodo per i frontalieri, ma adeguato al costo della vita elvetico. Tornando a questa donna, il permesso di domicilio (permesso C) le è stato concesso per la prima volta nel 1989 e poi prorogato ogni cinque anni, fino al luglio del 2020. Con un’ordinanza del 5 agosto 2022, l’ Ufficio della migrazione del Canton Soletta ha però deciso di revocarglielo sentenziando di fatto l’espulsione della donna dalla Svizzera. L’8 maggio 2023 il tribunale amministrativo solettese ha respinto il ricorso contro questa decisione e le ha ordinato di lasciare il Paese. Successivamente la donna ha tentato l’ultimo grado di giudizio, rivolgendosi al Tribunale federale, ma anche la più alta Corte del Paese ha respinto il ricorso. Nonostante il lungo periodo di permanenza, ha sentenziato il Tribunale federale, «non si può parlare di un’integrazione riuscita nelle condizioni attuali», come si legge nella decisione. Dal suo arrivo, la donna «ha fatto affidamento sul sostegno dell’ex marito, dei figli adulti e, soprattutto, dello Stato per circa 17 anni» e non ha mai cercato di trovare un lavoro o di rendersi indipendente. I precedenti gradi di giudizio «hanno giustamente presunto che esistesse un importante interesse pubblico nel revocarle il permesso di domicilio», poiché la denunciante ha «già usufruito di una grossa somma di denaro per l’assistenza sociale». Ancora: «Dopo aver vissuto in Svizzera per 40 anni, non sarà certamente facile per la denunciante reintegrarsi nel suo Paese d’origine», ammette il Tribunale federale. Tuttavia, nonostante le obiezioni della donna, un ritorno in Turchia è considerato ragionevole: è lì, infatti, che ha vissuto fino all’età adulta e lì ritornava ogni volta che andava in vacanza. Quindi è «ancora legata al suo paese d’origine dal punto di vista linguistico e culturale». Per il Tribunale federale, dunque, può mantenere i rapporti con i suoi figli e nipoti adulti in Svizzera «attraverso visite regolari durante le vacanze e attraverso mezzi di comunicazione elettronici».

Ora, qualche riflessione. Questa donna ormai anziana – verosimilmente musulmana e poco istruita – non ha mai cercato un lavoro, ma bisogna vedere se è mai entrata nell’ordine di idee di cercarlo. Donne simili ne vedo anche nel mio quartiere: coperte di stoffa dalla testa ai piedi, a spasso con un paio di bambini, non partecipano mai a niente, interagiscono poco se non donne uguali a loro o sono perennemente accompagnate dal marito. Poco scolarizzate, si dedicano ai figli ma poche lavorano, in genere nei negozi e nelle botteghe artigiane delle proprie comunità. Ma se dovessimo espellere chi non si è integrato in quarant’anni, allora penso anche al vecchio direttore della Lyon Bookshop, la libreria inglese di Roma: questo distinto signore risiedeva da una vita nell’Urbe ma era più “British” di quando era partito. Per non parlare dei funzionari della FAO, un vero mondo a parte. Certo, inutile parlare di integrazione e/o inclusione se la controparte non collabora, ma si limita a sfruttare tutte le pieghe dell’assistenza sociale e del garantismo giuridico. Gli svedesi hanno espulso un profugo croato che si rifiutava di imparare lo svedese, e anche qui c’era di mezzo il sussidio statale. Ma che s’intende per scarsa integrazione? Esistono in questo campo parametri riconosciuti secondo uno standard internazionale? Nessuno ama chi ti usa ma non comunica, ma la riflessione è appena iniziata: la persona ha i mezzi culturali, morali e matyeriali per integrarsi? Qual è l’atteggiamento della comunità di accoglienza? Se la scuola e il lavoro sono mezzi classici di integrazione, gli insegnanti sono preparati e per la persona da integrare la scuola e il lavoro sono un valore? Come si vede, la questione è meno semplice di come l’hanno risolta i tribunali svizzeri.